Il fact-checking dell’intervista di Schlein al Corriere della Sera

Abbiamo verificato sette dichiarazioni della segretaria del PD, che ha commesso alcune imprecisioni
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
Il 24 aprile il Corriere della Sera ha pubblicato un’intervista della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein. Dai risultati elettorali del partito alle accuse contro il governo, abbiamo verificato sette dichiarazioni di Schlein per vedere quali sono supportate dai fatti e dai numeri, e quali no.

I risultati nei capoluoghi

«In 13 dei 17 capoluoghi in cui si è votato lo scorso anno noi siamo il primo partito» 

I conti di Schlein sono imprecisi. Nel 2023 si sono tenute le elezioni amministrative in 19 capoluoghi di provincia, non in 17: si è votato ad Ancona, Brescia, Brindisi, Catania, Foggia, Imperia, Latina, Massa, Pisa, Ragusa, Siena, Siracusa, Sondrio, Teramo, Terni, Trapani, Treviso, Udine e Vicenza.

Se non si considerano le liste civiche, ma solo quelle esplicitamente collegate a un partito, le liste del Partito Democratico sono state le più votate in 12 capoluoghi (Ancona, Brescia, Brindisi, Foggia, Imperia, Massa, Pisa, Ragusa, Siena, Sondrio, Vicenza e Udine). Se si considerano le liste civiche, il conto scende a otto su 19 capoluoghi, ed escono Ragusa, Sondrio, Vicenza e Imperia.

I risultati nelle regioni

«Siamo [il primo partito] anche in Sardegna. E pure dove perdiamo, come in Abruzzo e in Basilicata, quasi raddoppiamo i consensi»

È vero, nelle elezioni regionali in Sardegna del 25 febbraio la lista del PD è stata la più votata con il 13,8 per cento dei voti, davanti al 13,6 per cento di Fratelli d’Italia.

I risultati in Abruzzo e Basilicata, invece, vanno contestualizzati meglio. Alle elezioni regionali in Abruzzo del 10 marzo la lista del PD ha preso 117 mila voti (20,3 per cento), mentre cinque anni fa ne aveva presi 67 mila (11,1 per cento). È vero che rispetto al 2019 la lista del PD ha quasi raddoppiato i suoi voti. Ma cinque anni fa c’era la lista civica del candidato presidente Giovanni Legnini (PD), che prese 33 mila voti. Nel 2019 anche Articolo 1 aveva presentato una sua lista, mentre oggi fa parte del PD. Sommando una parte dei voti di queste due liste, il guadagno del PD si riduce parecchio. 

Alle elezioni regionali in Basilicata la lista del PD ha preso oltre 36 mila voti, il 13,9 per cento sul totale. Alle precedenti elezioni regionali del 2019 la lista “Comunità democratiche-Partito Democratico” prese il 7,7 per cento e oltre 22 mila voti. In quell’occasione, però, il candidato di centrosinistra Carlo Trerotola era supportato da sette liste, mentre Piero Marrese, sconfitto il 21 e 22 aprile dal presidente uscente Vito Bardi, è stato supportato da cinque liste, due in meno.

I numeri di chi rinuncia alle cure

«4 milioni di italiani […] hanno dovuto rinunciare in parte alle cure perché non se le possono permettere»

Il numero corretto è un po’ più alto di quello indicato da Schlein. Secondo i dati Istat più aggiornati, nel 2023 il 7,6 per cento della popolazione in Italia ha dichiarato di aver dovuto rinunciare a visite mediche (escluse quelle odontoiatriche) o ad accertamenti diagnostici per problemi economici, per le lunghe lista d’attesa o per la difficoltà di accesso alle strutture sanitarie. In totale stiamo parlando di 4,5 milioni di cittadini, in aumento di 372 mila persone rispetto al 2022.

I soldi alla sanità salgono o scendono?

«E il governo che fa? Taglia la sanità»

Il dibattito sui “tagli” alla sanità va avanti ormai da mesi, con dichiarazioni scorrette e fuorvianti fatte sia da politici al governo sia da politici all’opposizione. Vediamo che cosa dicono i numeri più aggiornati contenuti nel Documento di economia e finanza (Def), pubblicato a inizio aprile dal governo.

Nel 2022 la spesa sanitaria italiana ha raggiunto i 131,7 miliardi di euro, una cifra pari al 6,7 per cento del Pil. Con le due leggi di Bilancio per il 2023 e per il 2024 il governo Meloni ha aumentato i soldi destinati al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, a cui fa riferimento la stragrande maggioranza della spesa sanitaria. Dunque, in valori assoluti il finanziamento al Servizio sanitario è aumentato. Ci sono però alcune osservazioni da fare.

La prima osservazione: nonostante il governo avesse previsto che nel 2023 la spesa sanitaria avrebbe raggiunto i 134,7 miliardi di euro, in realtà è scesa a 131,1 miliardi. Il calo registrato tra il 2023 e il 2022 è dovuto principalmente a due motivi. Il primo – il «più ragguardevole» – è legato al fatto che sul 2023 non sono stati conteggiati gli oneri per il rinnovo dei contratti del personale dirigente e degli accordi per il personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale per il triennio compreso tra il 2019 e il 2021. Visto il «loro mancato perfezionamento», si legge nel Def, questi oneri sono stati spostati sul 2024. Il secondo motivo per cui la spesa sanitaria è calata in valori assoluti tra il 2022 e il 2023 riguarda una «minore quantificazione» delle spese sostenute l’anno scorso dall’Unità per il completamento della campagna vaccinale e per l’adozione di altre misure di contrasto della pandemia, un organismo il cui nome è abbreviato nella sigla “Uccv”. Questa unità è stata istituita con un decreto-legge a maggio 2022, durante il governo Draghi, per rispondere a «possibili aggravamenti» della pandemia di Covid-19 ed è stata poi soppressa a luglio 2023. Il suo posto e i suoi compiti sono stati presi dal Ministero della Salute.

La seconda osservazione: è vero che il governo Meloni ha previsto un calo della spesa sanitaria in rapporto al Pil, che dal 6,4 per cento del 2024 passerà al 6,3 per cento nel 2025 e 2026. Ma la stessa previsione era stata fatta dal ministro della Salute del governo Draghi, Roberto Speranza, che è un esponente proprio del PD guidato da Schlein. 

La terza osservazione: è vero che negli ultimi due anni il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è aumentato in valori assoluti, ma non abbastanza da colmare l’aumento dell’inflazione. Un forte aumento dell’inflazione è sicuramente un problema per la spesa sanitaria (e anche per le altre voci del bilancio). Per esempio se si raddoppiano i fondi della sanità, ma al tempo stesso raddoppiano anche i costi per le apparecchiature, gli stipendi, l’elettricità e tutto il resto, alla fine la spesa reale in sanità resterà la stessa. 

Lo scorso novembre, in un’audizione parlamentare, l’Ufficio parlamentare di bilancio ha però spiegato che per valutare correttamente l’impatto dell’inflazione sulla spesa sanitaria, bisognerebbe avere un indice affidabile dei prezzi del settore sanitario. «Mancando un tale parametro, l’applicazione della variazione dei prezzi al consumo alla spesa sanitaria corrente in termini nominali (ossia senza considerare l’inflazione, ndr) può offrire al più un’indicazione sul generico potere d’acquisto delle risorse destinate al Servizio sanitario nazionale, ma non sul volume dei beni e servizi sanitari erogabili da parte di quest’ultimo», ha sottolineato l’Ufficio parlamentare di bilancio. Riassumendo: se in un anno l’inflazione aumenta del 5 per cento, questo non significa necessariamente che il potere d’acquisto del sistema sanitario si sia ridotto di questa percentuale.

Quanti sono i lavoratori poveri

«[In Italia] ci sono 3 milioni e mezzo di lavoratrici e lavoratori poveri»

Per verificare se il numero citato da Schelin è corretto oppure no bisogna chiarire che cosa si intende per “povero”. Esistono infatti vari modi per quantificare la povertà: se si considerano le persone in povertà assoluta, il numero citato dalla segretaria del PD è esagerato. 

Secondo Istat una persona, o una famiglia, vive in povertà assoluta se non raggiunge una soglia di spesa mensile in beni e servizi considerata necessaria per avere uno standard di vita accettabile. Questa soglia non è fissa, ma varia in base a dove si vive e al numero di persone all’interno della famiglia. Secondo Istat, nel 2022 viveva in povertà assoluta il 7,7 per cento delle persone occupate nel nostro Paese: quell’anno gli occupati in Italia erano 23,2 milioni, quindi gli occupati in povertà assoluta erano circa 1,8 milioni, più o meno la metà dei «3 milioni e mezzo» citati da Schlein.

Con tutta probabilità, però, la segretaria del PD ha fatto riferimento a un altro indicatore, quello della in-work poverty, tradotto in italiano con “povertà lavorativa”. Secondo Eurostat, un lavoratore è considerato in “povertà lavorativa” se rispetta quattro condizioni: deve avere un’età tra i 18 e i 64 anni; deve essere occupato al momento della rilevazione dei dati; deve aver lavorato per almeno sette mesi nell’anno di riferimento; e in un anno deve avere un reddito disponibile equivalente (un particolare tipo di reddito che tiene conto del numero di membri della famiglia) inferiore alla soglia della cosiddetta “povertà relativa”. Questa è fissata a un valore pari al 60 per cento del reddito disponibile mediano nazionale equivalente (valore mediano significa che la metà dei redditi ha un valore inferiore e l’altra metà superiore). Per un lavoratore single stiamo parlando di una soglia di 11.500 euro l’anno. 

A seconda dei parametri considerati, le stime sui lavoratori italiani che vivono in “povertà lavorativa” cambiano: si passa da quasi 2,5 milioni a più di 3 milioni, un numero più vicino ai «3 milioni e mezzo» indicati da Schlein.

Che fine ha fatto il fondo per gli affitti

«[Il governo] non ha confermato i 330 milioni di euro di fondo per l’affitto»

Questa è una delle dichiarazioni più ripetute da Schlein da quando è diventata segretaria del PD: ne abbiamo scritto più approfonditamente in un altro fact-checking. 

In breve: è vero che con la legge di Bilancio per il 2023 il governo Meloni non ha rifinanziato il fondo che aiuta a pagare le spese per l’affitto previsto da una legge del 1998. Questo non vuol dire però che il fondo sia stato cancellato. Il mancato rifinanziamento del fondo rientrava già nelle previsioni sia del secondo governo Conte sia del governo Draghi e in passato, in almeno cinque casi, non è stato rifinanziato.

Quanto vale il bilancio dell’Ue

«L’attuale bilancio europeo vale l’1 per cento del Pil comune»

La percentuale indicata da Schlein è sostanzialmente corretta.

L’Unione europea funziona con bilanci a lungo termine chiamati “quadri finanziari pluriennali”, che coprono un periodo di sette anni. «Il bilancio a lungo termine prevede il finanziamento dei programmi e delle azioni in tutti i settori d’intervento, che spaziano da agricoltura e politica regionale a ricerca, industria e spazio, in linea con le priorità a lungo termine dell’Ue», spiega il sito del Consiglio dell’Ue. 

Il quadro finanziario per il 2021-2027 può contare su 1.216 miliardi di euro, a cui si aggiungono gli 807 miliardi di euro del Next Generation EU, che tra le altre cose finanzia il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nel complesso, stiamo parlando di circa duemila miliardi di euro, circa 285 miliardi l’anno. Il Pil annuale dei 27 Stati dell’Ue ammonta, più o meno, a 15.700 miliardi di euro. Dunque il bilancio pluriennale rapportato al Pil vale circa l’1 per cento, che sale all’1,8 per cento considerando anche il Next Generation EU.

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