Perché il Def di quest’anno sta facendo discutere

Uno dei documenti di finanza pubblica più importanti è stato pubblicato in maniera incompleta. Abbiamo fatto il punto su come il governo si è giustificato e perché i partiti di opposizione lo hanno criticato
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
Il 10 aprile il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato il testo ufficiale del Documento di economia e finanza per il 2024, approvato il giorno prima dal governo Meloni. Il Def è uno dei principali documenti di finanza pubblica perché contiene le previsioni economiche e il piano di azione del governo per l’anno in corso e per i tre anni successivi.

Come già successo in passato, anche quest’anno la presentazione del Def sta facendo discutere. Il governo Meloni è stato criticato, in particolare, per aver pubblicato le stime sull’andamento dei conti pubblici solo in base al cosiddetto “quadro tendenziale” e non in base a quello programmatico. La stessa scelta era stata fatta ad aprile 2017 dall’allora governo guidato da Paolo Gentiloni, che però all’epoca era dimissionario: poche settimane prima c’erano state le elezioni e all’inizio di giugno era entrato in carica il primo governo Conte. 

Le ragioni che hanno spinto il governo Meloni a non pubblicare le stime relative al quadro programmatico sono diverse e sono state criticate dai partiti dell’opposizione, secondo cui il governo starebbe mettendo a rischio la credibilità del Paese di fronte ai mercati finanziari. 

Prima di analizzare le ragioni dei due schieramenti, bisogna capire qual è la differenza tra il quadro tendenziale e quello programmatico, e perché è importante.

La differenza tra tendenziale e programmatico

La differenza tra “tendenziale” e “programmatico” è già suggerita dai due nomi. Il quadro tendenziale stima le tendenze dell’economia a legislazione vigente, ossia sulla base delle leggi attualmente in vigore. In parole semplici, calcola l’andamento di vari indicatori economici in assenza di qualsiasi nuova misura da parte del governo. Questa stima è fondamentale per quantificare l’efficacia delle politiche pubbliche e permette di capire quanto dell’andamento della finanza pubblica sia dovuto a tendenze nazionali o internazionali, e quanto invece all’azione del governo. 

Il quadro programmatico stima l’andamento dei conti pubblici sulla base dell’applicazione del programma economico del governo. Questa seconda parte del Def permette di quantificare l’efficacia delle nuove politiche che un governo intende adottare nel breve futuro. Stiamo dunque parlando di una sintesi dell’agenda di governo e dei suoi possibili effetti, che vanno presentati e approvati dalla Commissione europea, il cui compito è valutarne la sostenibilità. Dal momento che le politiche di un singolo Stato membro dell’Unione europea possono avere conseguenze su tutta l’Ue, tutti i Paesi sono tenuti a presentare alla Commissione Ue documenti equivalenti al Def, su cui le autorità europee esprimono un loro parere.

Le stime contenute nel Def sono poi aggiornate nella Nota di aggiornamento al Def (Nadef), che va pubblicata entro l’inizio di ottobre. Nel 2022 la Nadef è stata presentata dal governo Draghi, all’epoca dimissionario, senza il quadro programmatico e successivamente è stata rivista e integrata dal governo Meloni, insediatosi alla fine di ottobre di quell’anno.

Le ragioni del governo

Il governo ha giustificato la scelta di non presentare il quadro programmatico dicendo che a breve saranno cambiate le regole europee sulla gestione dei conti pubblici, contenute nel nuovo “Patto di stabilità e crescita”. Questo Patto stabilisce, tra le altre cose, i limiti da rispettare per quanto riguarda il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo (Pil), e il rapporto tra il deficit (ossia la differenza in negativo tra le entrate e le uscite dello Stato) e il Pil. 

«Per evitare che la costruzione del programmatico risulti un mero esercizio di stile, il Def si limiterà all’aggiornamento delle previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica tendenziali – ha scritto il governo nel Def – rinviando la definizione degli obiettivi programmatici alla presentazione» del cosiddetto “Piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine”. Con quest’ultimo, quando la riforma del Patto sarà ultimata, ogni Stato membro si impegnerà a seguire una traiettoria di bilancio, per ridurre il debito, e realizzare determinate riforme e investimenti pubblici.

Secondo alcuni esponenti del governo, un altro fattore che ha reso difficili le previsioni del governo sono stati il Superbonus e i bonus edilizi, il cui impatto definitivo sui conti pubblici è ancora incerto. Di recente proprio questi bonus hanno causato una revisione al rialzo del deficit fatto nel 2022 e nel 2023. Per esempio il nuovo Def stima che il deficit nel 2023 è stato pari al 7,2 per cento del Pil, mentre nella Nadef era stimato al 5,3 per cento. Una differenza di quasi 40 miliardi di euro. 

Questa giustificazione del governo ha un fondamento, ma può apparire un po’ forzata. È vero che gli oneri dei bonus edilizi sono stati molto più alti rispetto alle previsioni iniziali e che sono stati fatti vari aggiornamenti sui costi nel corso degli ultimi tre anni. Ma questo fatto dovrebbe confondere anche i calcoli per il quadro tendenziale, visto che il Superbonus è una norma a legislazione vigente, e non una novità futura.

Ma al di là delle ragioni del governo, cerchiamo di capire se e quali conseguenze ci possono essere per la presentazione di un Def senza il quadro programmatico.

Le possibili conseguenze

Secondo i critici del governo, la prima conseguenza della scelta di non pubblicare il quadro programmatico potrebbe essere reputazionale: il rischio, insomma, è dare l’impressione che il governo non abbia un piano economico per i prossimi anni. Ci sono segnali che questo danno di reputazione si stia già verificando? Per ora la risposta è no. 

Per rispondere alla domanda abbiamo controllato l’andamento dello spread, la differenza di rendimento tra i titoli di stato (ossia il costo del debito) italiani e tedeschi. A un aumento della sfiducia da parte degli investitori dovrebbe corrispondere un aumento del costo del debito pubblico, dato che si richiede un maggiore rendimento a fronte di un rischio percepito maggiore. Questo primo effetto non sembra essersi realizzato: da quando è stato annunciato il Def lo spread è rimasto stabile. Anche il rendimento dei titoli di stato italiani non ha registrato particolari cambiamenti, un possibile segnale che gli investitori non hanno giudicato in maniera eccessivamente negativa la decisione del governo.

Questa stabilità potrebbe essere legata al fatto che la Commissione europea ha detto di rispettare la scelta del governo italiano e quella di altri governi che non presenteranno, per il momento, il quadro programmatico dei loro conti pubblici. Il secondo rischio infatti era quello di uno scontro con la Commissione europea, che avrebbe potuto rifiutare un Def parziale. Secondo alcuni osservatori, le imminenti elezioni europee di giugno, e quindi il rinnovamento delle istituzioni europee, potrebbero aver influenzato la posizione della Commissione Ue. Un’ipotesi è che il governo italiano abbia deciso di aspettare a pubblicare il quadro programmatico sperando che la nuova Commissione Ue possa essere più favorevole a un maggiore deficit rispetto a quello attualmente previsto.

Dal 2020 a oggi, infatti, l’Italia ha sempre sforato il tetto del deficit pari al 3 per cento del Pil. Questo limite è stato stabilito con il “Patto di stabilità e crescita” che è stato temporaneamente sospeso tra il 2020 e il 2023. È normale che l’Italia, come altri Stati europei, si sia indebitata molto durante la pandemia: in quel periodo sono state messe in campo politiche costose con l’obiettivo di rilanciare la crescita e la ripartenza dell’economia. Con il nuovo “Patto di stabilità e crescita”, al di là dei dettagli sul suo contenuto, non sarà più possibile fare tanto deficit quanto è stato fatto negli ultimi anni. E secondo vari osservatori, il fatto che l’Italia abbia ancora bisogno di fare così tanto deficit nonostante il rimbalzo del Pil è un segnale preoccupante.

Va aggiunto che il deficit già alto (nel quadro tendenziale è al 4,3 per cento nel 2024 e al 3,7 per cento nel 2025) potrebbe costringere il governo a rinunciare ad alcune misure finanziate finora solo in modo temporaneo. Primo fra tutti c’è il rinnovo del cosiddetto “taglio del cuneo fiscale” (la differenza tra il lordo e il netto in busta paga) per i redditi fino a 35 mila euro, che solo per il 2024 costerà quasi 10 miliardi di euro. In più, solo per quest’anno, sono stati stanziati circa quattro miliardi di euro per ridurre temporaneamente, da quattro a tre, il numero delle aliquote Irpef. Per rifinanziare anche il prossimo anno queste due misure, che in base al quadro tendenziale non ci saranno più nel 2025, il governo dovrà trovare circa 14 miliardi di euro. Il mancato rinnovo di queste due misure rischia di essere un duro colpo dal punto di vista politico e il governo potrebbe aver deciso di posticipare la pubblicazione del quadro programmatico per evitare un impatto sul voto delle elezioni europee.

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